Interviste in dialetto vallepietrano

Com’era la vita a Vallepietra quando l’unica lingua parlata e compresa da tutti era il dialetto?

Ce lo racconta la Signora Pierina in alcune interviste rigorosamente in vallepietrano. Si tratta di preziose testimonianze  su momenti importanti della vita degli abitanti di Vallepietra.

Pierina è una contadina che ha fatto la scelta di prendersi cura della terra lasciata in eredità dai suoi genitori.

Il dialogo riporta brevi scorci che rimandano alla semplicità della vita di campagna.

Le domande sono principalmente incentrate sui diversi aspetti della quotidianità.

L’organizzazione familiare, i mezzi di trasporto, la coltivazione della terra, i piatti tipici e le tradizioni.

L’obiettivo finale di questa attività è contribuire a riportare alla luce il dialetto, favorirne la divulgazione e valorizzarlo.

Come si viveva a Vallepietra quando era piccola?

Alla bona, come se viveva, simu stati sempre…alla meglio, tutta sta crascia nun c’è stata mai, simu campato perché simu tenutu le crapi, le crapi è nu mestiere vivo, lu casu, a zappa’, c’è statu sempre da zappa’, se c’è lo zappa’, c’è i facioli, pulenna, tuttu no, l’agricoltura ce fa campà, se nun campi manco te muvi.
‘—Alla buona, come si viveva, siamo stati sempre…alla meglio, tutta quest’abbondanza non c’è stata mai, siamo sopravvissuti perché abbiamo avuto le capre, le capre sono un mestiere vivo, il formaggio, a zappare, c’è stato sempre da zappare, zappare voleva dire avere i fagioli, la polenta, tutto no, l’agricoltura ci sfama, se non riesci a sfamarti non puoi neanche muoverti.’

Durante il dopoguerra c’era molta miseria e la terra e gli animali erano l’unica fonte di ricchezza. La capra ad esempio aveva un ruolo fondamentale per il mantenimento delle famiglie, perché produceva latte.

Cosa mangiavate?

—Latte tanto, però ju fallò, la focaccia però cu’ la farina della pulenna, ‘mbastatu a manu cu’ l’acqua fredda e cotto sotto agliu focu. Poi patate, facioli, simmu tenutu sempre la crascia de tuttu…
‘—Latte tanto, però il fallò, la focaccia fatta con la farina di polenta, impastata a mano con l’acqua fredda e cotta sotto alla brace. Poi patate, fagioli, abbiamo avuto sempre abbondanza di tutto.’

—Mamma mi raccontava del sanguinaccio (piatto tipico fatto con il sangue del maiale).

—…ju sanguinacciu chello se faceva cu’ ju sangue degliu porcio…
Il sanguinaccio si faceva con il sangue del maiale.’

Però facevate anche quello…com’era fatto? Si affettava? Era dolce?

—No, nun è dolce, però jè nun lu so fattu mai, nun m’è mai piaciutu lu sangue. Mamma faceva pure la pulenna la mmatina, pe’ sfamacce de più, aremu quattru figli. Allora la mmatina, magnata la pulenna, potevi gìà rescì, callu, friddu, già bella satullata, satulla, se stà attrippata.
‘—No, non è dolce, però io non l’ho fatto mai, mi è mai piaciuto il sangue. Mamma faceva anche la polenta la mattina, per sfamarci di più, eravamo quattro figli. Allora la mattina, mangiata la polenta, potevi già uscire, caldo, freddo, già bella sazia e con la pancia piena.’

A quei tempi il sostentamento prevedeva alimenti come il latte e i frutti del raccolto, come patate e fagioli.  Uno dei piatti tipici era il fallò, una focaccia di farina di polenta, impastata a mano con l’acqua fredda e cotta sotto alla brace. Ma la regina della cucina tradizionale contadina era soprattutto la polenta. Si consumava anche a colazione e come piatto caldo durante le rigide giornate invernali.

Come vivevate e quanti eravate?

—Simu stati quattru figli, jè so’ l’urdima.
‘—Eravamo quattro figli, io sono l’urdima.’

—Stavate tutti insieme?

—Tutti in casa, sì…
‘—Tutti a casa, sì.’

La particolarità dei nuclei familiari del dopoguerra era la condivisione. Si viveva tutti insieme e ognuno contribuiva alla sussistenza del gruppo.

Come ci si spostava?

—Sempre a piedi perché quando che prima tenemu ju mulu, però sempre co’ ju lavoro, a lavora’, a lavora’ ju carbone, poesse pure a tenegliu ‘nsieme agliu cavallo, è capitato a cavallo però lo più tanto a piedi, la canestrella ‘n capu e gli pedalini ‘n mani a sferruzza’, pe’ lavora’ i pedalini de cotone.
‘—Sempre a piedi perché prima avevamo il mulo, però ci serviva per lavorare, andavamo a lavorare il carbone, è capitato anche a cavallo però la maggior parte delle volte a piedi, con il cesto sulla testa e i calzini in mano a sferruzzare, lavoravamo i calzini di cotone.’

—Lavoravate i calzini? Davanti al camino?

—No, pe’ la via pure.
‘—No, anche per strada.’

—Quindi mentre camminavate lavoravate i pedalini?

—Sì, ma se tu ju vo’ nu paru pe’ tenettegli pe’ bellezza tegli do’.
‘—Si, se ne vuoi un paio per tenerli per bellezza te li do.’

Gli spostamenti avvenivano sempre a piedi perché il mulo serviva per lavorare. Era il mezzo di trasporto per il carbone, prodotto nei boschi all’interno delle così dette carbonaie, allestimenti improvvisati a forma di montagnola conica.

Capitava di spostarsi anche a cavallo ma la maggior parte delle volte a piedi e con il cesto sulla testa contenente i prodotti dell’orto. Durante il cammino, le donne riuscivano addirittura a lavorare i calzini di cotone con i ferri da calza.

Come si trasportavano i prodotti dell'orto?

—Cu’ la curolla e la canestra ‘n capu messa bene, perché sennò se cammini tesse scinciano, allora la capoccia bella ‘ngrillata.
‘—Con la corolla e la canestra in testa messa bene, perché altrimenti se cammini ti si scompigliano, allora la testa deve stare bella dritta.’

Per trasportare i prodotti le donne creavano la “corolla”, una serie di stracci arrotolati intorno alla testa. Sull’impalcatura creata poggiava una canestra che faceva da contenitore. Il tutto doveva essere posizionato bene, per non far cadere il contenuto e la testa doveva stare ben dritta.

Si ringrazia la Sig.ra Pierina Romani per gentile concessione e preziosa collaborazione.